Giornata della Memoria: la testimonianza toccante e commovente di un casolano - Comune di Casola Valsenio

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Giornata della Memoria: la testimonianza toccante e commovente di un casolano

 
Giorno-della-Memoria

In occasione del Giorno della Memoria, pubblichiamo la lettera che Giuseppe Ridolfi ci ha inviato dalla Bolivia, dove vive da alcuni anni, in ricordo di suo padre, Umberto, internato nel campo di concentramento di Mauthausen, in Austria, nel 1944.

 

Quella di Giuseppe è una testimonianza toccante e commovente, “per non dimenticare, e imparare a guardarci dentro”.

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LETTERA DALLA BOLIVIA DI GIUSEPPE BEPPE RIDOLFI

 

Sono figlio di UMBERTO, Berto dla legna.

Sin da bambino ho sempre saputo che mio padre era stato prigioniero politico nel campo di concentramento di Mauthausen; a casa non se ne parlava, lo sapevo perche ogni tanto veniva a trovarlo un signore di Bologna.

Questo signore era stato prigioniero con lui ma mai parlavano dell’argomento.

Si vedeva da come si guardavano che c’era un legame molto forte tra di loro.

Avevano passato assieme cose inenarrabili.

Nel comodino aveva un braccialetto di cuoio e ferro con un numero, il numero di prigioniero.

Tutte le notti lo sentivo urlare nel sonno.

Come scusa mi raccontavano che nella prigionia era stato torturato cosi tanto che gli avevano rotto un tendine del collo e se si addormentava dal lato sinistro si affogava e urlava per svegliarsi.

Purtroppo era una parte della verità. 

Io comunque l’ho sentito urlare ogni notte fino alla fine dei suoi giorni.

Era un urlo straziante di vero dolore. Dopo un’esperienza così traumatica cercava di non pensarci, ma ogni notte riaffiorava.

Nei primi anni 80 venne contattato dall’ANED, l’Associazione Nazionale Ex Deportati.

Nelle liste di un campo di quarantena a Innsbruck c’era il suo nome.

Un gruppo di ex prigionieri di Imola inizio a fargli visita.

Nell’85 dopo tanta insistenza lo convinsi ad andare a fare un viaggio della memoria.

Andammo a Mauthausen e per tutto il viaggio di andata stette molto sulle sue.

Arrivammo al campo e lì incontrò un altro prigioniero; era spagnolo.

Si riconobbero subito, come se i 40 anni trascorsi fossero stati 2 minuti, si guardarono ridendo e si abbracciarono.

Lui era stato fatto prigioniero nel periodo della guerra di spagna e viveva li da molti anni; il suo lavoro era togliere i denti d oro ai morti.

Al ritorno mio babbo era un’altra persona, si era sciolto. Iniziò a raccontare come non aveva fatto in 40 anni.

In autobus iniziò a raccontare ai giovani la sua esperienza, di quando – nel 1944 - aveva 16 come loro, di come un vicino di casa fascista ed incosciente, per la ricompensa che avrebbe ricevuto per la sua delazione, lo fece nascondere nel rio della Cestina ed andò a chiamare i tedeschi dicendo che sapeva dove si nascondeva un partigiano.

Raccontò di tutto quello che aveva sofferto in quel campo, di come era stato torturato per 16 mesi.

Ci raccontò della quarantena e dei vari campi dove era stato trattato come schiavo, con il suo triangolo rosso cucito nel petto, il segno che portavano i prigionieri politici. 

La famiglia di mio padre si dedicava a fare il carbone; non si erano mai interessati alla politica. L’unico loro interesse era il lavoro.

Come già ho raccontato fu preso in un rastrellamento, con altri 90 giovani della vallata.  Ritornarono in 2, lui ed un famoso avvocato di Palazzuolo, detto l’avvocatone delle Spiagge che, per sua fortuna, nel campo di concentramento incontrò suo cognato che lo mise a lavorare nell’infermeria; lui era stato catturato perché aveva la colpa di essere l’amante della figlia di un fascista di Marradi. Il fascista prima provò a farlo fuori sparandogli ma non gli riuscì di ucciderlo poi nel rastrellamento lo fece catturare dai tedeschi e gli disse "questa volta non ti salvi".

Nel campo li costringevano a una quarantena di lavori forzati in una miniera di pietra, Sulle spalle avevano uno zaino di legno, si caricavano un blocco di pietra e salivano la famigerata scala della morte.

La pietra doveva essere grande e se in cima alla scala l’SS giudicava che era piccola li faceva tornare indietro e spesso morivano sotto il peso o cadevano dalla scalinata.

Molti morivano in quei primi 40 giorni, in quella dolorosa quarantena. Chi la superava veniva sottoposto a una visita medica. Se eri idoneo ti mandavano alla doccia dove usciva l’acqua, se non eri idoneo ti mandavano a morire nella doccia da cui usciva gas di cianuro.

 Terminato il processo di selezione di questa gran macchina di sterminio, li inviavano ad altri campi di lavoro, per la produzione bellica.

Il mangiare era pochissimo. Dovevano vivere solo 4 mesi in condizioni inumane.

Lavoravano tutto il giorno e la sera li facevano svestire perché non cercassero di scappare: la mattina uscivano all’aperto solo con le mutande. In estate si sopportava ma in inverno, nudi con qualche grado sotto zero, era veramente una tortura, sopratutto se ti lasciavano ore in piedi, esposto alle intemperie, per punizione.

Nel campo se qualcuno faceva qualcosa di male la punizione era per tutti.

Ogni 4 mesi un altro viaggio alla base, altra visita medica e poi alle docce.

Rubare da mangiare era un delitto. Mio padre ricevette per 3 volte 20 frustate per aver rubato le bucce delle patate. Un’altra volta lo appesero per le braccia legate dietro, dopo 2 giorni le braccia si erano slogate. Resistette a tutte queste ignobili torture, passò 4 visite.

Il giorno prima dell’ultima visita arrivarono gli americani e liberarono il campo e si salvò.

Fanno molti film di guerra molto realistici, ma sui campi non sono mai riusciti a ricreare la realtà.

Solo entrando nelle sale di tortura o nei forni crematori uno comprende quanto possano essere stati crudeli i nazisti e quanto abbiano sofferto milioni di persone.

Arrivati gli americani mio padre ed il suo amico scapparono.

A piedi da Innsbruck, dove li avevano internati per un’altra quarantena, camminarono fino a PADOVA, poi su di un camion di farina fino a Bologna dove scese l’amico.

Mio padre proseguì fino al incrocio di Castel Bolognese.

Qui incontro Varo con la sua carrozzella in compagnia di una ragazza casolana; la fece scendere e lo accompagnò fino a Casola, poi in bici arrivo ad Oriano.

Sotto casa incontro suo babbo: deve essere stata una scena bellissima di amore e di affetto. Per 16 mesi lo aveva aspettato e per non perdere la speranza aveva messo nel salvadanaio ogni settimana la sua paga.

Nella zona, il fascista che lo aveva denunciato aveva fatto tante cattiverie, non solo a mio padre e la voglia di vendetta come potete immaginare era ben presente.

Alcune di quelle vittime andarono da mio padre dicendogli che se voleva vendetta loro potevano aiutarlo.

Mio babbo Umberto Ridolfi, gli rispose che era tornato a casa, che aveva salvato la pelle e non voleva vendette.

Così facendo gli salvò la vita.

Sapevo chi era quel fascista, conoscevo quella persona. E’ morto pochi mesi dopo mio babbo. Conoscevo anche i suoi figli. Da bambini abbiamo giocato anche assieme.

Mio padre non ha mai dimostrato odio contro nessuno.

Con tutto il male che ha visto e vissuto aveva smesso di credere in Dio, ma non ne aveva bisogno …è sempre stato una persona buonissima.

Dentro di lui c’era la pace di chi ha vinto contro tanto odio.

Il giorno della memoria è questo, è non dimenticare, è imparare a guardarci dentro.

Per espellere il germe del male, iniziamo a guardare le persone con un altro atteggiamento, creiamo ponti di pace e non di odio.

Ne abbiamo bisogno tutti per creare una società migliore, invece sembra che le persone non abbiano memoria.

Ho avuto un grande esempio. Per questo ho scritto queste poche righe – le ho scritte con le lacrime agli occhi - per non dimenticarlo e spero che anche voi possiate far tesoro di questa esperienza.

Perché queste atrocità non si ripetano mai più.

Grazie.

 

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MAUTHAUSEN_La-scala-della-morte

 

foto

 

MAUTHAUSEN: LA SCALA DELLA MORTE.

 
Lettera con testo integrale in conclusione: